LiberiAMO Campobasso!
La storia insegna
Pagine dimenticate di Campobasso e sui campobassani
Nel Principe Niccolò Macchiavelli affermava di guardare al passato per capire la storia e non ripetere gli stessi, abusati errori. Se il passato insegna il futuro e i latini fecero proprio il motto ubi major minor cessat, i grandi imperi possono regnare ma alla fine sono destinati a cadere. I campobassani sembrarono farne tesoro; vediamo come.
In pieno medioevo, nell’anno 1277, tra l’allora feudatario Roberto di Molise e gli abitanti di Campobasso sorsero controversie legate al fitto di strutture ai mercanti forestieri. Il pesante giogo feudale sui sudditi esercitato dal de Molisio deciso a incamerare i proventi derivanti dai mercati, si tradusse nel divieto agli abitanti di costruire o fittare case e baracche nella pubblica piazza durante l’antica fiera di S. Maria e nel mercato settimanale del giovedì, concessione di cui in realtà i campobassani avevano goduto nei decenni precedenti. Le fiere medievali significavano espansione demografica ed economica, inurbamento e crescita delle attività artigianali, potere e coordinamento della vita economica del circondario che fecero di Campobasso una delle sette città del Regno, sede del mercato granario. I lamenti dei campobassani riguardavano: l’esercizio abusivo del conte dei diritti feudali a danno della libertà personale e delle proprietà immobiliari private; monopolio del signore dei proventi derivanti dalle fiere; intromissioni illecite negli atti amministrativi della città. La città si sollevò e la contesa si concluse con l’inquisizione di 24 capi d’accusa mossi dai magistrati cittadini presso la Real Curia di Napoli. Re Carlo I d’Angiò riconobbe le ragioni dell’Università alla presenza di una delegazione di 32 campobassani, al feudatario non restò che riconoscere le proprie colpe e concedere nuovamente i legittimi diritti alla città. Lo strumento dello statuto municipale consentì ai campobassani di limitare i soprusi e con l’istituita carica del mastrogiurato a capo del governo cittadino, furono ulteriormente tutelate la libertà individuale e privilegi e concessioni precedenti. Ciò accrebbe l’autonomia dell’Università e la partecipazione attiva dei cittadini alla vita politico-amministrativa; la presenza di una scuola dall’anno 1287, accentuò inoltre il processo di alfabetizzazione e permise una più vasta coscienza civica. Durante la crisi politica del periodo angioino una nuova ripresa della feudalità aumentò la pressione fiscale determinando forme di proteste, questa volta non unitarie. Dopo il terremoto del 1349 e la peste di fine secolo re Carlo III accorda nuovi sgravi fiscali all’Università di Campobasso e poco più tardi lo stesso fece re Alfonso I d’Aragona; i provvedimenti diedero nuova linfa economica all’abitato sino al terremoto del 1456. I danni del sisma furono così ingenti da consentire a Nicola II di Monforte di farne pretesto per fortificare l’abitato in vista del suo tradimento verso gli aragonesi. La spesa occorrente vide però il concorso dei campobassani che furono tassati con gabelle sulla carne e sul vino. La vittoria degli aragonesi sugli angioini esiliò il Monforte, i campobassani si adoperarono per svincolarsi una prima volta dal potere feudale facendo atto di sottomissione al re e facendo riconoscere in un diploma datato 4 Settembre 1464 la proclamazione regia della città. Ciò significò essere subordinati al solo re, al riparo da ogni angheria e soprusi con tassazioni legali, fisse e pubbliche. Organizzati in buon numero i cittadini, attraverso nobili e uomini egregi, scrissero un memoriale in 18 capitoli che presentarono al re per chiedere garanzie e rispetto dei privilegi acquisiti, tenere la città sotto diretto ed esclusivo dominio reale sotto la guida di un capitano regio, che nessun campobassano potesse esser portato in giudizio furori dai confini cittadini, proscioglimento dei debiti accumulati, riacquisizione delle gabelle sulle carni e sul vino estorte dal Monforte, la conservazione delle fiere e dei mercati.
I documenti esaminati dimostrano la volontà dei campobassani di sottrarsi al giogo feudale e cercare, come nei Comuni medievali dell’Italia centro-settentrionale, di acquisire sempre più autonomia cittadina. Purtroppo il diploma reale fu tradito dal re, così, in maniera altrettanto furbesca, i campobassani passarono momentaneamente, nel 1496, sotto le fila francesi di re Carlo VIII che ne premiò i servigi resi facendo donazione alla città dei castelli di Baranello, Busso e del casale di Monte Vairano. Intanto la fisionomia della città prendeva forma, e seppure feudatari continuavano a dimorare, la gestione di parte della ‘cosa’ pubblica era nelle mani del castellano, del capitano regio e del mastrogiurato eletto dal popolo, il quale, coadiuvato da tre sindaci, aveva carica e mandato annuale. La città si ingrandiva, furono consentiti due ampliamenti esterni alle mura, uno prima sotto gli aragonesi, il secondo dai nuovi signori di Campobasso: i Gonzaga. Gli statuti redatti tra i campobassani e Cesare Gonzaga alla metà del Cinquecento imponevano da una parte ai campobassani di versare molte migliaia di ducati nelle casse feudali, dall’altra la garanzia di non poter vendere o affittare beni se non a persone campobassane, il signore inoltre, contento della fedeltà della città, restava vincolato a tenere la giurisdizione su di essa. Grazie ai mercati e alle fiere Campobasso traeva cospicue fonti di guadagno e incentivo grazie ai proventi derivanti dalla transumanza, cui l’Università aggiunse la gestione del dazio (gabella) sulla farina che sancì una nuova conquista a favore della cittadinanza e dell’Università. D’altronde ogni qual volta si giunse a soprusi i campobassani reagirono. Dopo l’annessione del Molise alla Capitanata e le vessazioni dalla sede di Lucera, inviato un suo rappresentante per questioni di tasse, fu ferito dal campobassano Ercole di Renza. Nel secolo XVII altre signorie comitali, regie e ducali si avvicendarono Campobasso senza che nessuna di esse si dimostrasse curatrice degli interessi cittadini.
Intanto i Gonzaga, tradendo il patto con i campobassani, vendono nuovamente la città al migliore offerente; si fa avanti il benestante napoletano Ottavio Vitagliano esercitante avvocatura e collezionista di feudi tra cui Sant’Elia, Monacilioni, Ferrazzano e Oratino in cui risiedeva. Il duca acquistò Campobasso nel 1638 ma la sua fama non piacque alla città che da tempo e in ripetute intelligenti operazioni si era garantita libertas e autonomia. Così in occasione della fiera di San Pietro del 29 Giugno 1639 il Vitagliano percorrendo il tragitto tra Oratino e Campobasso fu raggiunto da due archibugiate rimaste anonime. L’uccisione del duca non fu un fatto personale ma attribuita all’intera collettività campobassana non più disposta a sottomettersi a piccoli e avari despoti; se ne ritrova memoria nelle parole di don Urso di Ferrazzano che riferisce come il duca fosse entrato in possesso di Campobasso con disgusto grandissimo, non volendo quello per padrone.
Ancora una volta Campobasso si ribellava ai suoi tiranni, ma credendo ancora una volta in buon affare acconsentì alla vendita della città al duca di Ielsi Giambattista Carafa, che nel 1642 ne prende possesso al prezzo di 75.000 ducati. Anch’esso prepotente e bieco fu inviso ai campobassani. L’insurrezione napoletana di Masaniello ebbe eco anche a Campobasso. Qui il 17 Luglio 1647 giunse Nicola Manara il quale, qualificandosi come generale del popolo napolitano, con l’aiuto di un nobile campobassano fece fuggire il Carafa, rinchiuse nel castello gli esattori fiscali del duca Pompeo de Attellis e Cecco Vaglia e uccise nella pubblica piazza il mastrodatto e altro esattore del dazio. Rientrato in città dopo i tumulti, il Carafa continuò la mala gestione di Campobasso. I debiti contratti da Mario, morto nel 1727 senza eredi diretti, portò la città nelle mani dei creditori. Nel 1729 i campobassani tentarono ancora una volta, riuscendoci, di affrancarsi dal potere feudale iniziando la rivendica al Demanio della città. La stima della città fu compiuta dall’Ing. Stendardo e ammontò la somma di ducati 102.848,38. Con l’introduzione di nuovi strumenti giuridici le università potevano garantirsi l’ammissione al Regio Demanio facendo seguire alla richiesta di proclamazione il deposito di una somma stabilita dalla Regia Camera della Sommaria.
La città venne riscattata con diritto di prelazione e grazie a un escamotage poté intestare il feudo a un cittadino registrato in qualità di tenutario nel regio Cedolario. Per arrivare a ciò, i campobassani intrapreso ben quattro anni di azioni legali, giuridiche ed economiche e il 14 agosto 1738, per iniziativa del procuratore Anselmo Chiarizia, fu presentata domanda di prelazione con la raccolta, unitaria anche negli animi dei cittadini campobassani, di ben 30.000 ducati di oblazioni volontarie; altri 73.000 furono chiesti in prestito da diversi luoghi Pii di Napoli sino a quando, nel 1742, i cittadini liquidarono al duca i restanti 5.500. Il 4 Marzo dello stesso anno fu celebrata a Campobasso la cerimonia d’investitura e la consegna delle chiavi di città a Salvatore Romano, contadino di umili origini, garante di una discendenza di ben dodici figli maschi. Si chiudono così alcune bellissime e dimenticate pagine di storia cittadina che faceva dei campobassani i precursori della municipalità, anticipando sia la rivoluzione del 1799 che la successiva e definitiva abolizione della feudalità del 1806. La fermezza di quei campobassani risuonò ancora, forse per l’ultima volta, nelle parole di Francesco D’Ovidio, il quale, tra le tante battaglie si oppose a coloro che tanto sciaguratamente tentarono di cambiare il nome alla città: “…i nostri antenati di tutto altro vizio peccassero che di superbia, di tuttaltra virtù mancassero che di rassegnazione”. E se in un suo discorso fece appello ai molisani perché non dipendessero da un drappello di uomini politici, esortandoli a cambiare lo status quo e agire in prima persona per il loro Molise, terminò la sua arringa affermando: “… il nome materno è cosa sacra, quale esso sia, bene o mal sonante, carezzevole o rozzo… perché questo campo non è in verità così basso.”.
Walter Santoro
Foto di Paolo Cardone, per gentile concessione